Amicizie post-pandemia, dette anche "amicizie di polistirolo"
Manuale di sopravvivenza per la vita sociale dopo la pandemia. Avere familiarità con il personal branding e le interazioni parasociali.
Ciao!
Oggi voglio aiutarti a comprendere una delle meccaniche che purtroppo regnano sovrane nel mondo dei Social Media. E lo farò facendoti un esempio preciso:
Se navighi nell’ambiente e stai molto sui Social, ti sarà capitato di rispondere a qualcun* su Instagram per poi passare a scambiarvi messaggi via via più affettuosi. Capita, a volte, che queste interazioni al momento dell’incontro nella vita reale scemino immediatamente. La persona che credevi di aver conosciuto tramite dei messaggi ha dimostrato di non essere interessata a te, di non provare quell’affetto che emergeva da quelle stringhe di testo e, non solo, dopo il vostro incontro ti sei ritrovat* ghostat* o, peggio, defollowat* dalla persona in questione.
Perché succede? Non hai sbagliato nulla, semplicemente non hai tenuto in considerazione l’idea che quella persona non fosse gentile con te per genuina amicizia, ma perché stesse facendo personal branding.
Lo so, all’inizio non è facile da capire, ma andiamo per gradi. Il personal branding non è un termine malvagio di per sé, è un discorso che solitamente si fa nel marketing. Quando una persona vuole “vendersi”, far interessare le persone ai propri spazi e trasformare la propria personalità (o parte di essa) in un “marchio” sta semplicemente lavorando. Ed è quello che fanno gli influencer, proprio per definizione.
Questo meccanismo sfrutta la banale legge della domanda e della risposta. Nello specifico:
Domanda: solitudine, bisogno di interazioni
Risposta: fornire uno spazio di ascolto e compagnia
Cosa ci guadagna il lettore? L’appagamento del suo bisogno di interazioni.
Cosa ci guadagna il profilo pubblico? Interazioni che si traducono in visibilità, aumento del bacino di utenza e, in alcuni casi, ritorni economici (offerte di lavori importanti, sponsorizzazioni).
La pandemia ha ridotto di molto le nostre vite fuori casa, costringendo alcun* di noi a ripiegare sui social. Uno degli ambienti dove questa cosa è molto evidente è proprio quello dell’attivismo online, dove si sono affermati una serie di profili che hanno raggiunto, grazie al loro impegno e le loro competenze, un discreto bacino di utenza. Il problema è che l’ambiente dell’attivismo non è come tutti gli altri, ma tocca spesso delle corde più delicate nei lettori che, spesso e volentieri, iniziano a sentirsi attaccati emotivamente alla persona che seguono. Vuoi perché condividiamo parti delle nostre vite, vuoi perché vedi il mio bel faccione associato agli argomenti di cui leggi, vuoi perché ti affezioni a una persona che, in teoria non conosci, ma ti ha aiutato.
Questo meccanismo è definito parasocial relationship e si usa spesso con i fandom e le celebrità. Si tratta di una relazione che non solo è univoca e non corrisposta, ma è proprio inesistente, illusoria, immaginata da una delle due controparti. E la verità è che con la pandemia la differenza tra un personaggio pubblico e una persona che ha anche solo una manciata di visibilità si è quasi del tutto azzerata. Abbiamo vissuto chiusi in casa, affamati di contatto umano e così abbiamo ingrassato i bacini di utenza di tante persone attiviste che fanno personal branding.
Le interazioni parasociali di questo tipo sono anche più dannose perché ti permettono di percepire quella persona, con la quale scambi messaggi dove racconti anche esperienze estremamente delicate, come un’amicizia. E non ti passa per la testa che quel “bene” che ricevi sia fasullo, visto che non hai motivo di pensarlo: quella persona non ha poi così tanti followers e non sembra avere alcun ritorno economico da tutto ciò.
Ma la nuda e cruda verità è che, un bel giorno, le restrizioni anti-COVID spariscono, decidi di andare ad un evento per incontrare tutti gli “amici” che ti sei fatt* su Instagram e noti che quelle persone erano “amiche” di una trentina di altre persone allo stesso modo in cui lo erano con te. Magari sono gentili, magari cercano di portare avanti questa recita anche fuori da Instagram ma lo so che, nel profondo del tuo cuore, quel retrogusto di polistirolo che denota una falsità di fondo lo percepisci.
E mettici anche che all’inizio fai finta di niente, anche perché dopo un anno di COVID-19 ce lo scordiamo cosa significhi “amicizia”. E ci sta, nelle condizioni in cui ci troviamo adesso, di aver abusato di questo termine applicandolo a chiunque ci abbia “viziat*” per compiacere un loro bisogno di sentirsi utili.
La prima ad essere cascata in questa meccanica infernale sono io. Quindi non sentirti giudicat* da questo post, perché se c’è da urlare “scema” sono in cima alla lista delle persone che devono sentirselo dire.
Va detto però che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Questo post non vuole dirti di non fidarti dell’attivismo online e che l'* attivist* sono tutt* brutt* e cattiv* e vogliono solo le tue interazioni. Non è così. E’ che, matematicamente parlando, è estremamente difficile che tu ti faccia degli amici semplicemente chattando con qualcuno su Instagram. E bisogna comprendere a priori che il fatto che una persona sia gentile con te non significa che sia tua amica.
E questo lo dico a te, ma lo sto dicendo anche a me perché sai quante “amicizie” che credevo di aver fatto in pandemia si sono rivelate fuffa appena siamo usciti di casa? Ecco.
Perciò ti dico le cose come stanno: gli effetti benefici che si può creare all’interno di una bolla di positività che ti è venuta incontro in un momento di difficoltà sono oggettivi. Ma l’amicizia, carissim*, l’amicizia è altro. E, mi dispiace, ma l’amicizia non la si coltiva stando nei collettivi.
L’amicizia può nascere solo se riesci a portare una di quelle persone fuori dal contesto dove è conveniente l’interazione. Quando non c’è necessità di fare personal branding, è lì che si vede la differenza abissale. Quando non c’è una questione di numeri, non ci sono dinamiche di immagine da alimentare, è lì che scoprirai chi sono i tuoi amici. Io l’ho capito quando, non appena veniva a mancare il contesto dove era conveniente l’interazione, queste interazioni scomparivano misteriosamente.
E poi c’è un’altra cosa che devo dire: ma perché io, invece, non lo faccio? Eccome se lo faccio, tesoro. Faccio attivismo su un profilo che porta il mio nome e cognome, ho un profilo LinkedIn dove espongo i miei lavori, ti ho fatto iscrivere alla mia Newsletter. E, perdonami la franchezza, ma l’amicizia non si sancisce quando ci si iscrive a una Newsletter.
Sicuramente ti voglio bene, perché mi stai supportando e inevitabilmente questo crea una serie di meccanismi in me che mi portano soddisfazione. Ma, dall’altro lato, va detto che le relazioni interpersonali non funzionano in questo modo. E che devi prendere tutto questo solo come un modo di stare a contatto con le altre persone, imparare da loro e arricchirti, ma ci vuole qualcosina in più affinché si possa parlare di “amicizia”.
E questo non perché io elevi il concetto di “amicizia” a un qualcosa di ultraterreno (non sono quel tipo di persona), ma perché l’amicizia è una cosa spontanea, che nasce se deve nascere e non da un meccanismo domanda-risposta quale è la bolla di Instagram, ma quale è anche quello che ti ha spinto ad iscriverti alla mia Newsletter.
Quindi no, io non demonizzo le interazioni parasociali né altro. Semplicemente voglio che, a differenza di come sono stata io, le persone siano consapevoli perché è un attimo che queste dinamiche possano essere occasione di abuso. E io non voglio assolutamente trovarmi nella posizione di essere abusiva verso nessuno. Ecco perché questa lettera è un tantino cruda sotto alcuni aspetti. Mi dispiace se qualche passaggio ti ha messo a disagio. Fammelo sapere rispondendo alla mail, se ti va.
L’unica cosa che ti chiedo di fare è di stare attent* a quanto proietti sulle persone che ti circondano. Sii consapevole dei rapporti che hai con le persone che senti abitualmente e non avere paura di fare domande sulle loro intenzioni, perché tutelarti è un tuo diritto. Quando ne va della tua salute mentale, hai il diritto di chiedere che ti si porti rispetto e che non si abusi di una tua debolezza. Ad esempio, io soffro della sindrome dell’abbandono e ci sono alcune cose che per me sono dei veri e propri input che innescano una serie di meccanismi che mi fanno andare in paranoia. Ed è quando chiedo alle persone con cui interagisco di evitare di darmi input di questo tipo inutilmente, che capisco se c’è o meno un reale interesse.
E, se pazienti un po’, scriverò un articolo di approfondimento sulle interazioni parasociali. Ricordati di seguirmi su Instagram e di iscriverti alla Newsletter di EqualiLab, così non ti perderai nulla. (eccolo, il personal branding)
Ti auguro una splendida serata e spero che tu ti prenda cura di te stess*, perché te lo meriti.
Un abbraccio forte,
Rocco.